Scuola dell’obbligo: tanto vale lasciarla così!

Il presente seguente documento è una prima “ricognizione” circa le principali criticità del progetto di riforma “La scuola che verrà”, pubblicato dal SISA nel settembre 2016. Esso è stato aggiornato da un memorandum consegnato al DECS quale risposta alla seconda fase di consultazione.

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La scuola dell’obbligo ticinese sta oggi vivendo un periodo di profondo mutamento, in conseguenza dell’adesione del Ticino al concordato HarmoS, entrato in vigore nel 2009 e in via d’implementazione proprio in questi anni.

Tale processo di riforma presenta però varie e importanti criticità, in quanto numerose proposte avanzate dal DECS e dalla politica rischiano di compromettere seriamente le pari opportunità di formazione dei cittadini e di portare ad una pericolosa deriva neo-liberista della scuola pubblica.

HarmoS: una voce nel deserto

dia-3Al momento dell’adesione all’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria (HarmoS), quella del SISA fu l’unica voce critica a levarsi contro l’adesione del Ticino, denunciando i pericoli per il diritto allo studio e per la democrazia stessa del nostro Cantone.

I nodi principali cui ci si era opposti sono i seguenti:

  1. La messa in competizione di istituti e sistemi scolastici: “misurando” e pubblicando i risultati scolastici degli allievi, periodicamente valutati tramite apposite prove intercantonali (in cui rientrano ad esempio anche i test PISA), si vuole andare a creare una vera e propria concorrenza tra scuole e sistemi scolastici. Le famiglie, libere di scegliere ove iscrivere i propri figli, sarebbero indotte a paragonare le performance dei vari istituti e a cercare la “soluzione migliore”: questa scelta potrebbe venir effettuata però unicamente dalle fasce più alte della popolazione, finanziariamente in grado di pagare trasporti, pasti, materiale scolastico supplementare, ecc. Si creerebbero quindi le famose “scuole di serie A e di serie B”, differenziate per qualità dell’insegnamento e per origine sociale degli studenti.
  2. L’insegnamento per competenze: il concordato prevede, traendo ispirazione dalla rivoluzione pedagogica promossa da grandi organizzazioni sovranazionali come l’UE e l’OCSE, che l’insegnamento non verta più sull’acquisizione di conoscenze e sullo sviluppo dell’autonomia di pensiero, bensì sull’acquisizione di alcune competenze di base, perfettamente funzionali alle esigenze del mercato del lavoro odierno. Queste si possono dividere in competenze ancora vagamente disciplinari (che vertono principalmente sulle lingue e le materie scientifiche) e in competenze “trasversali”, ovvero quegli atteggiamenti, quelle capacità che permettono allo studente di risolvere problemi, di relazionarsi con i compagni (e in futuro con i colleghi), ecc. Tra queste possiamo riconoscere la “collaborazione”, la “comunicazione”, il “pensiero creativo”, ecc. (per più dettagli rinviamo al nuovo Piano di studi della scuola dell’obbligo ticinese). Tutto ciò porta però ad un impoverimento culturale della maggioranza della popolazione (in particolare delle classi sociali più basse, le quali non dispongono di mezzi alternativi alla scuola per istruirsi) e ad un annullamento dello spirito critico dei cittadini: se la scuola insegna unicamente come utilizzare un computer e come lavorare bene in gruppo (tralasciando la storia, la geografia, la letteratura), come si potrà divenire coscienti della propria posizione sociale, dei propri interessi e di come organizzarsi per difenderli?
  3. La certificazione dell’informale: introducendo una nuova e più ampia forma di certificazione degli apprendimenti (oggi limitata al semplice “libretto”), il cosiddetto “portfolio delle competenze” o “profilo dell’allievo”, la scuola pubblica diverrà un luogo di semplice registrazione delle competenze acquisite altrove dagli studenti. Questo nuovo strumento permetterà infatti di documentare il processo di apprendimento, tanto a livello formale (ovvero quello scolastico), quanto quello informale (ovvero quello extrascolastico). In questo modo, gli studenti che avranno la possibilità, grazie alle risorse economiche della propria famiglia, di frequentare lezioni private fuori scuola, di compiere viaggi di studio o soggiorni linguistici, ecc. potranno vedersi riconosciuto (e attestato, nero su bianco!) il proprio grado di superiorità rispetto ai propri compagni meno benestanti. Ciò che permette poi naturalmente di accedere a formazioni superiori e a posizioni sociali di prestigio maggiore rispetto alla “massa”.

Queste problematiche non vennero minimamente considerate nemmeno dalla sinistra, e l’adesione al concordato divenne realtà grazie anche al sostegno diretto del Partito Socialista (ancora una volta, relatore per la commissione scolastica fu Carlo Lepori).

Ed è proprio quel Partito Socialista che promosse l’entrata del Ticino in HarmoS a rendersi ora protagonista, tramite il suo Consigliere di Stato Manuele Bertoli, della sua implementazione, spingendosi ben oltre a quanto di negativo già c’era nell’accordo.

La “scuola che verrà”: il lupo travestito da pecora

Il progetto di riforma della scuola dell’obbligo intitolato “La scuola che verrà“, presentato nel 2014 ed entrato ora nella sua seconda fase di consultazione, presenta infatti alcuni aspetti che possono essere condivisibili e interessanti, ma anche varie misure riorganizzative alquanto pericolose.

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Tra gli interventi positivi possiamo inserire: 

  1. Offerta sistematica di forme didattiche differenziate: diversificando lo spettro delle attività didattiche (creando giornate-progetto, atelier, ecc.) e uscendo dalla vetusta logica della lezione frontale, si potrà fornire agli studenti un’esperienza educativa molto più variegata e interessante di quanto non sia oggi.
  2. Opzioni e pedagogia differenziata: eliminando l’iniquo sistema del livelli A e B e favorendo invece una pedagogia differenziata grazie alla quale tutto il gruppo-classe possa beneficiare delle potenzialità degli studenti più capaci (questi, posti in un contesto cooperativo, potrebbero aiutare i più deboli a colmare le proprie lacune), si potranno apportare sensibili miglioramenti al modello inclusivo che è alla base della scuola media ticinese. Ciò vale anche per quanto concerne le opzioni: garantendo agli studenti un’offerta scolastica ampia e diversificata, si potrà permettere a tutti di coltivare i propri interessi senza dipendere dal portafoglio dei genitori (ricordiamo che non tutti hanno la possibilità di permettersi attività extrascolastiche…).
  3. Minor rigidità nell’accesso alle formazioni del secondario II: sostituendo il sistema di selezione su base numerica al termine della scolarità obbligatoria con un più mirato e sensibile sistema di orientamento scolastico, si potranno correggere i profondi squilibri tra le opportunità formative delle varie classi sociali (come dimostrano i dati, gli studenti del ceto medio-basso sono notevolmente sovrarappresentati nelle scuole professionali e nell’apprendistato rispetto ai propri compagni benestanti; la situazione è speculare per quanto riguarda le scuole medie superiori).

Fin qui, nulla da eccepire, anzi. I principi di “equità” e “inclusività”, ribaditi fin dalle prime righe del documento, verrebbero indubbiamente rafforzati da interventi di questo tipo. Tuttavia, non mancano altri aspetti, di carattere più organizzativo, che potrebbero renderli vani (o quantomeno secondari):

  1. l’introduzione del profilo dell’allievo (rimandiamo al commento precedente);
  2. l’insegnamento per competenze (idem);
  3. l’autonomia amministrativa degli istituti scolastici: con la trasformazione delle singole scuole in “Unità amministrative autonome” (UAA), il DECS intende conferire maggiore autonomia amministrativa agli istituti. Dovendo gestire autonomamente il budget della scuola, pianificando annualmente spese e investimenti, le direzioni degli istituti (sempre più paragonabili a dei veri e propri consigli di amministrazione) cesseranno di lavorare come elementi interconnessi di una rete scolastica votata al perseguimento degli stessi obiettivi educativi. Esse inizieranno invece ad agire secondo una logica imprenditoriale (mirando al “meglio” per la propria scuola) e a relazionarsi con la realtà locale (come entità indipendenti) con proprie finalità e proprie modalità di gestione, “adattandosi al territorio” per sfruttarne al meglio le potenzialità. Ciò rischia naturalmente di tradursi in particolari strategie di “autofinanziamento” o di collaborazione con enti extrascolastici in grado di assicurare loro fondi, attrezzature e know-how di cui il Cantone sarebbe ben felice di potersi non occupare (secondo la dottrina risparmista ormai imperante, poter spendere meno per la scuola sarebbe un toccasana per l’economia cantonale, in quanto permetterebbe di sgravare fiscalmente imprese e persone fisiche). In soldoni, si tratterebbe di permettere all’imprenditoria privata di entrare nelle scuole, finanziandole e promuovendo i propri interessi in termini di formazione della manodopera e di educazione dei consumatori: se l’ente pubblico si ritira (come fa da ormai 20 anni, forse senza risparmi massicci, ma sicuramente senza investire quanto sarebbe necessario), allora il privato subentra, con il notevole vantaggio di poter gestire in prima persona i propri investimenti, modulandoli e adattandoli alle proprie esigenze (senza l’ingombrante intermediazione dello Stato). Oltre a questo rischio di “privatizzazione strisciante” delle scuole, possiamo ipotizzare lo sviluppo di un altro fenomeno altrettanto preoccupante: la creazione di un malsano regime di concorrenza tra istituti. Concedendo alle scuole ampi margini di autonomia amministrativa e promuovendo implicitamente questo tipo di gestione imprenditoriale, queste verrebbero poste in competizione l’una con l’altra, cercando ognuna di accaparrarsi gli investimenti dei privati (che diverrebbero la principale fonte di fondi per permettere lo svolgimento e lo sviluppo dell’attività educativa) e di prevalere sulle altre in termini di “redditività” e di performance. Ciò andrebbe però a scapito degli istituti che già oggi presentano degli svantaggi, come le scuole di valle o di periferia (le quali devono sopportare costi maggiori a causa del trasporto e della refezione degli studenti nel primo caso, e di maggiori necessità in termini di sostegno pedagogico, linguistico ed extrascolastico conseguenti alla composizione sociale degli studenti nel secondo): queste scuole rappresenterebbero difficilmente delle buone destinazioni per degli investimenti privati, e verrebbero quindi abbandonate a sé stesse, trasformandosi nelle famose “scuole di serie B”. Certamente una multinazionale come Apple non fornirebbe un iPad ad ogni studente della scuola media di Stabio se sapesse che quasi nessuno dei genitori dispone dei soldi per acquistarne uno per casa; rispettivamente, una banca come UBS non promuoverebbe dei corsi di contabilità o di matematica nella scuola media di Cevio, sapendo che in pochi saranno motivati ad iscriversi alla Scuola Cantonale di Commercio in seguito.
  4. maggiore coinvolgimento delle direzioni nei processi di scelta e di accompagnamento dei docenti: permettendo ai Consigli di direzione di partecipare alle procedure di assunzione (e di licenziamento?) dei docenti, ampliando il loro spettro di competenze in materia (che oggi si “limita” ad alcuni aspetti della valutazione degli insegnanti), il DECS intende portare ad un livello più basso la gestione del personale, con l’obiettivo di conformarla alle particolari esigenze dei singoli istituti. In realtà, ciò porterebbe ad un clima di lavoro fatto di tensione e sospetto (i docenti non nominati, posti in regime di sorveglianza continua, dovrebbero cercare di impressionare positivamente la direzione d’istituto pur di ottenere il posto, entrando in competizione con i colleghi), con il rischio di ulteriori derive di stampo aziendalistico: in altre realtà (come ad esempio in Italia) si sta già assistendo all’introduzione di sistemi di remunerazione in funzione delle prestazioni, con veri e propri “bonus” annuali per i docenti “più meritevoli”, stabiliti proprio dalle direzioni d’istituto. Le conseguenze sarebbero devastanti: invece del rafforzamento della “comunità di apprendimento” e del “co-teaching”, nelle nostre scuole si creerebbe un ambiente di concorrenza asfissiante e nocivo per il bene stesso degli alunni.

Possiamo quindi concludere che la riforma di Bertoli, partendo da presupposti condivisibili quali ad esempio il “mantenimento dell’equità” (anche se forse sarebbe meglio parlare di una sua vera implementazione), si rivela essere un progetto perfettamente funzionale agli auspici del mercato e alle direttive neo-liberiste in materia di formazione. Essa pone infatti le basi per poter spalancare le porte della scuola pubblica alle imprese private, grazie a qualche semplice adattamento legislativo che nel contesto politico attuale sarebbe difficilmente contrastabile. Se in parlamento la sinistra è ormai del tutto marginale, c’è ben poco da sperare in un ipotetico successo in caso di referendum: ricordiamo tutti come è andata finire con le iniziative sulla scuola della VPOD…

La scuola che vogliamo”: la scuola che  (purtroppo) verrà?

fabbrica-scuolaNel settembre 2013, i deputati di Area Liberale Sergio Morisoli e Paolo Pamini ha presentato un’iniziativa parlamentare elaborata, intitolata “La scuola che vogliamo”, che porterà di fronte al Gran Consiglio gli adeguamenti legislativi che permetteranno di “colmare i vuoti” presenti nel progetto “La scuola che verrà”. La trentina di modifiche alla Legge della scuola proposte dall’iniziativa vanno infatti nella direzione di trasformare la scuola pubblica, intesa come luogo di istruzione dei cittadini e di formazione di un pensiero libero e critico, in un “libero mercato” formato da strutture formative indipendenti, sottoposte alle esigenze puntuali dell’economia privata e prive di qualsiasi valore socializzante o civile.

A titolo d’esempio, ricordiamo: il potere di nomina e di licenziamento dei docenti delegato alle direzioni; la libertà di scelta di istituto dove mandare i figli; parificazione definitiva tra scuole pubbliche e private; monitoraggio e valutazione annuale delle prestazioni dei docenti; commissione tripartita per i piani di studio; partecipazione di enti educativi profit e non profit; ecc.

Conclusione: meglio lasciarla così com’è oggi!

Né “La scuola che verrà” (seppure presenti alcuni aspetti interessanti e che occorrerebbe approfondire), né “La scuola che vogliamo” rappresentano un modello di scuola che corrisponda alle nostre aspirazioni: non rafforzano l’equità tra gli studenti, non garantiscono la necessaria indipendenza dal mercato, non favoriscono il libero sviluppo degli studenti né la formazione dello spirito critico fondamentale per sopravvivere nella “communication society” in cui viviamo oggi, non puntano alla creazione di un clima di lavoro e di studio solidale e aperto.

peanuts-scuolaNoi non crediamo che la scuola dell’obbligo ticinese sia esente da difetti, anzi (ricordiamo l’annosa problematica della selezione sociale; la mancanza di supporti alle famiglie come mense, doposcuola, lezioni di sostegno; i piani di risparmio che continuano a colpire la scuola e il corpo docente; l’esistenza di un’istruzione “di serie A e B” perpetuata dai livelli a tedesco e matematica; un orientamento scolastico misero e spesso controproducente, …), ma certamente  non è così pessima come insistono a voler dire in molti: è una buona scuola, a cui purtroppo non vengono dati i mezzi (soprattutto finanziari) per portare a termine la propria missione con risultati soddisfacenti.

E se queste sono le ricette per cambiarla, allora noi preferiamo mantenerla così com’è oggi.


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